martedì 5 agosto 2014

Ci vorrebbe proprio una parola apposta...

Quando si parla o si scrive nella propria lingua madre, può capitare di sentire la mancanza di una parola ben precisa per esprimere un determinato concetto: in sua assenza si è costretti a far ricorso a perifrasi più o meno complesse. A tal proposito, su Dailybest ho letto un post piuttosto interessante dal titolo 30 parole assurde intraducibili in altre lingue, illustrate con disegni splendidi, e tratto a sua volta da un articolo di Bored Panda. Le parole in esso raccolte appartengono alle lingue di tutto il mondo: ce ne sono pure due in italiano, Gattara e Culaccino [mai sentita prima d'ora: te la immagini Monica che in un episodio di Friends esclama sgomenta «Oh, povera me, chi mai avrà lasciato un culaccino sul tavolino del salotto?»? ;-)].
Una decina di queste parole esprimono concetti talmente comuni che mi chiedo come mai non sia ancora stato ideato un termine italiano corrispondente. Ecco quali:
  • Pochemuchka (russo): una persona che fa troppe domande.
  • Bakku-shan (giapponese): una ragazza bellissima... fino a che la si guarda da dietro!
  • Tsundoku (giapponese): l'abitudine di comprare libri e ammucchiarli in pile senza mai leggerli [vale anche con il Kindle? ;-) Tanto non mi riguarda... ché ho tutta l'intenzione di mettermi a leggere quanto prima i dieci ebook che ho acquistato finora da Amazon! :-)].
  • Prozvonit (ceco): fare uno squillo con il telefono, sperando che l'altro richiami e non ci faccia spendere soldi.
  • Iktsuarpok (inuit): la frustrazione che si prova quando si aspetta qualcuno in ritardo.
  • Mamihlapinatapei (yaghan): il gioco di sguardi di due persone che si piacciono ma hanno paura di fare il primo passo.
  • Ilunga (tshiluba): una persona che la prima volta perdona qualunque cosa, la seconda volta sopporta, ma alla terza non ha pietà.
  • Kyoikumama (giapponese): madre che pressa i figli perché abbiano grandi risultati nello studio.
  • Age-otori (giapponese): stare peggio dopo essersi tagliati i capelli [è più o meno così che mi sento in questi ultimi giorni... ;-)].
  • Schadenfreude (tedesco): godere delle disgrazie altrui.
Ce ne sono poi alcune altre riguardo alle quali mi domando se siano davvero intraducibili nella nostra lingua... beh, forse sì, almeno in parte. Backpfeifengesicht (una faccia che deve proprio essere presa a pugni) non è esattamente la stessa cosa del nostro faccia da schiaffi... e di sicuro la pronuncia tedesca fa la sua parte! ;-) Discorso analogo per il francese Rire dans sa barbe (sogghignare misteriosamente pensando a cose accadute nel passato), che non è proprio uguale al nostro ridere sotto i baffi. Lo yiddish Shlimazl (una persona cronicamente sfortunata) non equivale più o meno al nostro scalognato? E lo spagnolo Friolero (una persona particolarmente sensibile al freddo) non corrisponde forse al nostro freddoloso? E infine l'hindi Chai-Pani (soldi dati a qualcuno perché una pratica burocratica vada a buon fine) non è la nostra "cara" bustarella? ;-)
Alcune altre di queste parole sono semplicemente curiose, e stenti quasi a credere che si sia sentita la necessità di creare un termine specifico: ad esempio il pascuense Tingo, il namibiano Hanyauku, il maori Papakata, il tedesco Schilderwald, il norvegese Utepils e il finlandese Tokka (ma forse, a pensarci bene, in Scandinavia è abbastanza normale aver bisogno di una parola per designare un grande branco di renne...). Altre parole magari non mi capiterebbe mai l'occasione di usarle, ma le trovo decisamente affascinanti: mi riferisco al tedesco Fernweh, al giapponese Komorebi, allo svedese Gökotta, al giapponese Aware, al tedesco Waldeinsamkeit, al giapponese Wabi-Sabi e al coreano Won. Per illustrare questo post ho scelto il disegno riferito a quest'ultima, realizzato come gli altri dalla designer neozelandese Anjana Iyer, perché mi piaceva troppo la frase che lo accompagna: «It does not do well to dwell on dreams and forget to live», «Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere». Parola di Albus Silente! :-)

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